Attenzione! Questa è la versione italiana dell’articolo in inglese “Socio-economic integration – what is it, and why does it matter?” pubblicato sul n.71 di Forced Migration Review, rivista dedicata alle migrazioni forzate e prodotta dal Refugee Studies Centre di Oxford. Puoi leggere qui la versione originale. Se invece ti interessano gli altri articoli in italiano, li trovi qui.

Bisogna intendere l’integrazione socio economica come un concetto ampio, che comprenda le esperienze dei rifugiati in differenti contesti e sia parte integrante tanto della protezione quanto delle soluzioni durevoli.

Il mondo accademico e l’opinione pubblica tendono a vedere la protezione dei rifugiati e le soluzioni durevoli[1] come un rapporto tra Stato e rifugiati; quando un Paese non è in grado o non vuole garantire i diritti di base a una persona, questa scappa in un altro stato alla ricerca di una protezione sostitutiva finché non è in grado di tornare a casa o di acquisire una nuova cittadinanza.

La discussione, incentrata sulla ricostruzione di un’appartenenza politica, spesso dimentica di includere un’analisi sull’importanza del ruolo dei mercati. Di solito, quando una persona scappa dal proprio paese viene anche sradicata dal proprio impiego, dalle proprietà, dalle attività finanziarie, dai suoi affari e dal riconoscimento delle sue qualifiche educative. Ciò nonostante, all’interno del sistema di protezione, il recupero dei diritti socio economici viene percepito come meno importante rispetto a quelli civili e politici. Anche le soluzioni durevoli vengono di solito concepite come una relazione Stato – rifugiati, incentrata sul recupero della cittadinanza o di altre forme di appartenenza politica.

Stati, mercati e rifugiati

L’accesso dei rifugiati ai diritti e alle opportunità socio economiche è importante principalmente per tre motivi: diritti, welfare, politica. Per quanto riguarda i diritti, quelli socio economici rappresentano una parte importante della Convenzione del 1951 e della legge internazionale sui diritti umani; dal punto di vista del welfare, invece, la ricerca ha dimostrato che il benessere psico-sociale, così come un certo numero di indici di qualità della vita migliorano ad esempio grazie all’accesso ad un lavoro significativo. In un’ottica politica, la ricerca ha mostrato inoltre che le comunità ospitanti sono più propense ad avere un atteggiamento positivo nei confronti dei rifugiati se questi vengono percepiti come capaci di contribuire all’economia[2].

L’integrazione socio economica rappresenta sia un processo sia un risultato collegato al grado di partecipazione dei rifugiati ai mercati locali, nazionali e internazionali e non è un’alternativa alla protezione o alle soluzioni durevoli ma la condizione imprescindibile per l’efficacia di entrambe.

L’integrazione richiede uno sforzo da parte degli stati e del mercato, così come un’interazione tra i due. Gli Stati creano le condizioni grazie alle quali è possibile entrare nel mercato, ad esempio facendo rispettare i diritti di proprietà e i contratti applicabili mentre i mercati dipendono dalle attività per creare opportunità; succede nell’ambito del consumo, della produzione, delle assunzioni, delle cessioni e dei prestiti. Sebbene tutte queste attività siano già presenti all’interno delle comunità di rifugiati, vengono ristrette a diversi livelli.

Riflettere in maniera intenzionale sulla relazione tra stati e mercati è particolarmente importante nel caso dei rifugiati perché nel momento in cui le persone fuggono gli stati di destinazione hanno già ristretto loro l’accesso alle libertà socio-economiche, preoccupati dal fatto che potrebbero rimanere per sempre o competere con i cittadini per risorse finite, rinforzando il contraccolpo sulla popolazione generale.

La restrizione dei diritti e delle possibilità socio economiche è stata a volte ulteriormente legittimata dalla natura emergenziale della risposta ma le limitazioni pratiche e legislative ad una partecipazione socio economica significativa si sono protratte oltre il termine dell’emergenza.

Questa tensione ha fatto emergere un dibattito sul come rendere l’integrazione socio economica “sostenibile”: come possono i rifugiati partecipare pienamente ai mercati locali, nazionali e mondiali in modo che i cittadini li supportino, sia essi di paesi ad alto, medio o basso reddito?

Oltre l’autonomia

Nel mondo delle politiche per i rifugiati l’idea di autonomia ha fornito un punto di partenza per parlare dell’integrazione socio-economica; ha consentito alle organizzazioni umanitarie di riconoscere l’importanza dei mercati nell’ambito della protezione, tuttavia rappresenta anche dei limiti.

Il concetto, definito come l’indipendenza dei rifugiati a livello individuale, familiare e di comunità, è importante di per sé poiché è incentrato sull’espansione graduale dell’autonomia. Tuttavia, l’autonomia è molto più ristretta dell’integrazione socio-economica, viene di solito applicata ai paesi a basso e medio reddito ed è soggetta a critiche concettuali, politiche e pratiche.

Concettualmente, l’autonomia rischia di essere troppo riduttiva poiché confina l’integrazione socio-economica a una relazione di assistenza, con l’intento di diminuire la dipendenza dagli aiuti umanitari invece di promuovere la piena partecipazione ai mercati locali, nazionali e internazionali. Concentrandosi principalmente sul percorso di autonomia dei rifugiati, offre una visione ristretta rispetto alle più ampie barriere strutturali poste alla partecipazione socio-economica, quali i diritti legali, le infrastrutture e gli investimenti macroeconomici nelle regioni che ospitano i rifugiati. L’autonomia viene spesso vista come un’alternativa alle soluzioni durevoli mentre l’integrazione socio-economica deve essere intesa quale condizione imprescindibile per la protezione e per ciascuna delle tre soluzioni durevoli.

Politicamente, l’autonomia viene spesso sfruttata per servire interessi più ampi. Per i donatori, concetti come quello di autonomia supportano un’agenda di contenimento delle migrazioni, sottintendendo il significato di supportare la protezione invece che qua. Per gli ospitanti, i donatori elargiscono fondi che possono aiutare i politici nei paesi a basso e medio reddito a rinforzare il loro sistema di patronage. Secondo l’UNHCR, l’autonomia consente accesso ai fondi per lo sviluppo senza dare l’impressione di superare il mandato delle agenzie di sviluppo. L’attrattività dell’autonomia basata su interessi velati può non essere una brutta cosa se incoraggia il coinvolgimento degli stati; il rischio è, tuttavia, che gli effetti dell’autonomia ricadano su chiunque tranne che sui rifugiati stessi[3].

Praticamente, le iniziative che dovrebbero promuovere l’autonomia non sempre danno i risultati sperati. Ad esempio, a due anni dall’inizio di uno dei tentativi di più alto profilo, il Kalobeyei Settlement, meno del 2% dei nuovi rifugiati sud sudanesi è in grado di vivere indipendentemente dagli aiuti e solo il 6% ha un’attività indipendente e che genera reddito. Una delle ragioni principali di ciò è che spesso i programmi di autonomia fanno circolare una quantità limitata di denaro in modo un po’ più efficiente invece di confrontarsi con barriere strutturali più ampie per espandere i diritti e le possibilità dei rifugiati e delle comunità ospitanti[4].

In generale, il dibattito sull’autonomia ha probabilmente rappresentato un passo avanti verso un miglioramento dell’integrazione socio-economica dei rifugiati. Ciononostante, è necessario allargare lo sguardo per ricomprendere l’esperienza dei rifugiati in paesi ad alto, medio e basso reddito, percependo l’integrazione socio-economica come strettamente correlata a tutti gli aspetti della protezione e delle soluzioni durevoli. Inoltre, deve essere concepita come una relazione tra stati, mercati e rifugiati invece di una relazione tra organizzazioni umanitarie e rifugiati.

La direzione da prendere

La protezione dei rifugiati a livello internazionale è sotto attacco; dal Regno Unito, alla Danimarca e all’Australia, il diritto all’asilo viene apertamente sfidato. Tra i cambiamenti strutturali dell’economia mondiale innescati dall’esternalizzazione e dall’automazione e la recessione internazionale dovuta al COVID-19, le politiche democratiche si stanno polarizzando in modi che minacciano sia il diritto di asilo che i finanziamenti per gli aiuti multilaterali.

La sfida è ancora più dura perché mentre la volontà politica diminuisce, il numero dei rifugiati aumenta, così come le loro necessità. L’emergere di nuove spinte allo sfollamento, in particolare il cambiamento climatico, porteranno a confrontarci con un ampio numero di migranti forzati che non ricadrà negli ambiti previsti dell’interpretazione della Convenzione del 1951 da parte degli Stati. Dato che la “migrazione per sopravvivenza” aumenta – da contesti come quello del Venezuela, del Triangolo Nord del Centro America, del Sahel -, l’integrazione socio-economica diventerà un mezzo ancora più importante per rispondere in maniera sostenibile alle decine di milioni di persone che varcheranno i confini in cerca di diritti e opportunità.

E già una serie di opportunità esiste. Nei paesi ricchi la demografia e l’invecchiamento della popolazione stanno creando dei vuoti nel mercato del lavoro. L’imprenditorialità e la rivalutazione delle competenze di una forza lavoro differenziata e globale rappresentano un modo di supportare la crescita economica. La tecnologia consente sempre più di lavorare da remoto grazie a internet, alle tecnologie in cloud, alla blockchain e al metaverso che stanno cambiando il futuro del lavoro e il modo in cui probabilmente definiremo l’integrazione socio-economica. Gli Stati hanno iniziato anche a esplorare nuove forme di percorsi complementari per rifugiati, legati alle opportunità socio-economiche, come diversi tipi di impiego e formazione.

La sfida del sud globale, sia che i rifugiati si trovino nei campi o vivano di stenti in città, deve essere quella di espandere i diritti e le opportunità socio-economiche. Le ricerche mostrano che l’accesso al mercato del lavoro, a conti in banca, a capitali iniziali, ad aiuti economici e ai diritti di proprietà arricchisce i rifugiati e le comunità limitrofe.

Per i rifugiati del nord globale l’integrazione socio-economica non è meno importante. Il supporto del governo è cruciale, così come lo sono l’accesso al mercato del lavoro, le opportunità educative per aspirare a un lavoro significativo e soddisfacente e l’accesso tempestivo a banche e finanziamenti. In Europa, per esempio, i ritardi nell’ammissione dei rifugiati al mercato del lavoro e le restrizioni delle categorie di impiego non rappresentano un vantaggio per nessuno e non esistono prove che fungano da deterrente. In questo contesto, non si tratta di parlare dello stato contro i mercati ma del modo in cui questi due attori possono collaborare per consentire alle persone di vivere in maniera autonoma e dignitosa.

In nessun contesto, in ogni caso, l’integrazione socio-economica deve essere politicamente insostenibile. Semmai, le prove sembrano suggerire che maggiore è l’integrazione socio-economica e maggiore è la percezione che i rifugiati apportino il loro contributo alla società ospitante, più probabile sarà un atteggiamento positivo da parte della comunità ricevente.

È necessario sviluppare una conversazione innovativa e inclusiva

È necessario che si sviluppi un nuovo scambio di idee che colleghi temi quali “il futuro del lavoro”, la “tecnologia”, la “demografia” e le “infrastrutture” alla protezione dei rifugiati. Deve essere una discussione nella quale si riconoscano il ruolo degli stati, dei mercati e della società; nella quale i governi, le attività economiche e le organizzazioni internazionali collaborino per immaginare una nuova integrazione socio-economica come parte integrante della risposta globale al fenomeno dello sfollamento. Per ottenere tali risultati, è necessario adeguare anche ciò che misuriamo come comunità umanitaria: l’autonomia è un concetto quasi sempre troppo specifico e riduce la visione globale dell’integrazione socio-economica. Da ultimo, bisogna avere dati migliori per descrivere e spiegare i cambiamenti nei risultati socio-economici dei rifugiati.

L’approccio all’integrazione socio-economica deve tenere di gran lunga conto anche delle strategie adottate dagli stessi sfollati. La ricerca dell’autore ha rivelato che molto spesso le strategie socio-economiche adottate dai rifugiati non rientrano nello spettro di analisi delle organizzazioni umanitarie. A volte, il personale dell’organizzazione è all’oscuro delle attività economiche dei rifugiati mentre altre le considera irrilevanti. Lavorare al confine, usare la strategia di dividere la famiglia e fare la spola tra il campo e la città, ad esempio, dimostrano quanto siano importanti la mobilità e la transnazionalità per le vite economiche dei rifugiati e, ciononostante, come vengano spesso ristrette o rese illegali dagli stati e dalle organizzazioni.  Ad esempio, al confine tra Etiopia e Somalia, le strategie di sopravvivenza dei rifugiati spesso si basano sul lavoro frontaliero e il commercio tra i due paesi. È possibile trovare dinamiche simili ai confini tra Uganda e Sud Sudan e tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda[5]. Una parte cruciale del sostegno all’integrazione socio-economica è data dal comprendere e costruire sulle strategie economiche preesistenti, messe in atto dai rifugiati.

L’integrazione socio-economica, se ben concepita, non è in contrasto con la protezione dei rifugiati o le soluzioni durevoli; è parte integrante di entrambi. Lo scopo del sistema di asilo non dovrebbe essere solo quello di ristabilire l’appartenenza civile e politica ad uno stato, ma anche di riformulare la loro capacità di partecipare in maniera intenzionale e autonoma ai mercati locali, nazionali e mondiali.

Alexander Betts alexander.betts@qeh.ox.ac.uk @alexander_betts

Professore di Migrazioni forzate e Affari internazionali; Direttore del Refugee Studies Centre e Vice Direttore del Dipartimento di Scienze sociali, Università di Oxford


[1] L’UNHCR promuove tre soluzioni durevoli per i rifugiati: il rimpatrio volontario, l’integrazione locale e il reinsediamento

[2] Vedere, ad esempio, Bansak K, Hainmueller J, & Hangartner D, “How economic, humanitarian, and religious concerns shape European attitudes toward asylum seekers”, in Science354(6309), 2016, pp. 217-22 https://bit.ly/European-attitudes; Betts A, Stierna M F, Omata N, & Sterck O, “Refugees welcome? Inter-group interaction and host community attitude formation” in World Development161, 106088, 2023,  https://bit.ly/refugees-attitude-formation,

[3] Per un’altra, eccellente riformulazione di tale concetto vedere Easton-Calabria E. “Refugees, Self-Reliance, Development: A Critical History”, Policy Press, 2022.

[4] Per approfondire, vedere Betts A, “The Wealth of Refugees: how displaced people can build economies”, Oxford University Press, 2021.

[5] Betts A, Omata N, & Sterck O ‘Transnational blindness: International institutions and refugees’ cross-border activities’, in Review of International Studies47(5), 2021, pp.714-742 https://bit.ly/transnational-blindness

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